Biografia - Consonanze - Poesie - Pietro Agazzi

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Biografia
Rileggendo questa pubblicazione ho pensato che il modo migliore per presentarmi è raccontare la mia storia attraverso piccoli saggi autobiografici.
Questa è la mia origine, qui è iniziata la storia della mia famiglia che ancora oggi, stretta stretta, porto con me.
Il risveglio

Mi affacciavo, di mattino, sulla soglia di casa mia, pigramente, un poco indeciso nei movimenti e con gli occhi che stentavano ad aprirsi, dato che il sonno non mi aveva ancora completamente abbandonato.

Il sole, già alto nel cielo, fendeva l’aria cristallina coi suoi raggi perfetti ritagliando per terra l’ombra nitida di ogni cosa.
La chioccia, attivissima, s’ingegnava a insegnare ai suoi pulcini a scegliere nel terreno popolato d’insetti, la beccata più saporita, sottolineando col suo clò clò la squisitezza del boccone. Nella stalla le mucche ormai munte, ruminavano sonnolenti il loro pasto mattutino. Tutto era pace!

Solo le api sembravano avere una gran fretta di entrare ed uscire dall’alveare posto sulla loggia, proprio sopra la porta di casa. Alcuni fuchi giacevano stecchiti sull’aia.
Tutto l’intorno mi avvolgeva con dolcezza.

Poi, dato uno sguardo un po’ distratto ai campi circostanti, m’incamminavo adagio, dolcemente, verso il vicino giardino, dove, tra pini argentei, la primavera, quasi sottecchi, aveva fatto sbocciare le rose.
Come per incanto mi sentivo immerso in quella natura, ne respiravo i profumi morbidi e vellutati, e mi abbandonavo così profondamente ad essa da non accorgermi di esser vivo.

La mia vita era come se appartenesse ai fiori, all’erba novella, ai mughetti ai giacinti e ai gelsomini e poi anche ai passeri che numerosi, cinguettavano sui rami delle piante a me famigliari.
Dopo avere assaporato tutto questo, attraverso un pertugio, segretamente aperto nella siepe che tracciava il giardino, m’incamminavo nella campagna circostante, dove i prati, disseminati di fiori di campo, si stendevano, grandissimi, formando un tappeto dai mille colori.

Ai lati, vi erano vigne ed alberi da frutto già fioriti, come il melo, il fico, il ciliegio, il pero, il pesco, l’albicocco e il noce e mi sembrava che elevassero in coro un canto nuovo, rivolto al cielo. Su di essi vi era un gran via vai di passeri di fringuelli e di teneri scriccioli che saltellavano di ramo in ramo senza mai fermarsi.
Mi divertivo, allora, a respirare i profumi diffusi nell’aria cercando di scoprire a quali fiori o erbe appartenevano.

Poi, il mio sguardo si fermava, incuriosito, su un punto della vigna, dove tra le foglie, potevo scorgere un insolito via vai di passeri che mi faceva pensare che lì ci potesse essere un nido. Mi avvicinavo allora a quel filare, con circospezione, un po’ per non farmi notare e un po’ per non disturbare gli affetti familiari dei volatili, e negli intervalli in cui i passeri andavano in cerca di cibo, vinto dalla curiosità, scalavo la vigna, spostavo il fogliame, e curiosavo dentro il nido. Subito gli implumi, pensando che fosse arrivata la loro mamma, aprivano gli enormi becchi gialli, terribilmente affamati e stridenti in coro, regalandomi in tal modo una grande felicità.

Le persone che amavo erano impegnate qua e là sui campi, dove lavoravano, avvolte dal mantello azzurro del grande cielo.
Poi, nella mia esplorazione, mi ritrovavo quasi per caso, davanti al portico del padrone dove, sopra, un po’ in alto, era dipinta una madonnina col bambino in braccio; io la guardavo, lei mi guardava, io le sorridevo, lei mi sorrideva,
Poi le chiedevo: il mio papà è con te?
Lei continuava a sorridermi e mi sembrava che mi facesse cenno di sì.

Poi le rivolgevo una preghiera: Ave Maria.........ciao, ci vediamo stasera nella tua chiesetta delle Grazzine.
La grandinata

Il cielo incominciava a borbottare sommessamente da lontano, verso nord, in quel di Bergamo, quando il sole era ancora alto e gagliardo sopra di noi.
Già nell’aria si poteva percepire qualcosa di insolito: gli odori, i colori, i rumori ed il cinguettio degli uccelli che andava attenuandosi gradualmente, di pari passo con l’avanzare dei grossi nuvoloni neri portati dal vento, e il ritirarsi del sole.

Il borbottio avanzava facendosi sempre più esplicito e tale da non lasciare dubbio alcuno sulle intenzioni del temporale. La nonna, esperta in meteorologia contadina, mi diceva che sopra quei nuvoloni c’era il diavolo che correva su e giù con un carro dalle ruote quadrate e pieno di pietre e che il rumore che sentivamo era dovuto appunto al sobbalzare di queste durante il trasporto.

I contadini, preoccupati per quanto stava accadendo, rientravano prestamente dai campi e con loro anche mio nonno che, scuro in volto, non sapeva più su qual piede appoggiarsi.
Egli conosceva bene la minaccia di quel lugubre tuono ed il rischio di vedere rovesciarsi le pietre del diavolo che, divenute grandine, potevano distruggere, in pochi minuti, tutto il lavoro di un anno nel quale era riposta la speranza della nostra sopravvivenza.

La nonna mi invitava prestamente a formare sull’aia, con rametti e vimini che erano nei pressi, tante croci rivolte verso il cielo, imploranti, affinché il Signore ci risparmiasse dalla grandine.
Sotto il portico della cascina, uomini e donne, si radunavano ad aspettare l’evento. L’apprensione era intensa a tal punto che le imprecazioni dei primi e le preghiere delle seconde, si intrecciavano, ma ad un tempo, si distinguevano nettamente nei loro significati.

I primi granelli di grandine incominciavano a saltellare sull’aia come chicchi di riso, beffardi premonitori della grande offensiva. Saltellavano asciutti tra le croci, come spiritelli maligni, e come se non bastasse, divenivano man mano sempre più numerosi e grossi, spietati e sadici al punto che scendendo con inaudita violenza, distruggevano le vigne, i fiori, le piante e i frutti e l’erba e il grano nei campi, prima di distruggere sé stessi frantumandosi al suolo.
Anche le mie croci venivano disperse; di esse non rimanevano che fuscelli sparsi qua e la galleggianti sull’acqua gelida che aveva ormai sommerso l’aia e che formava gorghi negli scoli circostanti, invadendo ogni cosa.

Alcuni passeri giacevano esanimi nei loro nidi, stesi a protezione dei loro piccoli, altri giacevano per terra sotto le piante dalle quali erano caduti colpiti mortalmente. Nell’aria gelida e cristallina, un odore acre di foglie di frassino pungeva le narici. Poi un silenzio profondo calava e gli sguardi di tutti, attoniti, immoti, si perdevano nel vuoto.

Tutto ormai era compiuto: le preghiere, le ansie, i sacrifici, il lavoro, le speranze e le imprecazioni.
Un gusto amaro, dignitoso, sommesso, pervadeva ogni cosa.
La fede nella provvidenza divina si ergeva, unica, a sorreggere la vita di chi sperava in un avvenire migliore.

Ancora una volta il buon Dio aveva voluto forgiare, come il fabbro il ferro, i suoi contadini, quasi come se avesse voluto dare loro, attraverso l’incertezza del futuro, il senso profondo della relatività nella vita......; “guardate i gigli del campo.....guardate gli uccelli dell’aria.....non preoccupatevi di che mangerete e di che vestirete....pregate per non cadere in tentazione ......”

Ma la fatica era grande!!!

L’Eterno, come realtà intuita e ad un tempo sconosciuta, sovrastava imperante.
Il rosario di maggio

I rintocchi solleciti della campanella della chiesetta delle Grazzine, mi giungevano come un tintinnio di sottili fili d’argento, varcando prati e filari, sull’ora della sera, mentre le lunghe ombre incominciavano a disegnarsi un po’ ovunque. Era l’annuncio che di lì a poco sarebbe incominciata la funzione serale in onore della Madonna.

Dopo una frettolosa acconciatura, io e la mia famiglia, ci incamminavamo tutti verso le Grazzine, località che prendeva il nome dalla chiesetta appunto delle piccole grazie, percorrendo il sentiero del piccolo prato costeggiato da lunghi filari.

Una mano, affettuosa, callosa, stanca e decisa, mi conduceva, tra l’erba umida di rugiada e una brezza corposa, su su fino alla chiesetta. Il cammino era lungo per me, ma il messaggio ricevuto non lasciava dubbi: devi andare!

Allorché giunti, nella piccola chiesa già si accalcava una gran folla tanto che io, sebbene piccolo, riuscivo a stento a trovare un posticino.

All’ora giusta, il prete piccoletto grassottello e con gli occhiali, vestito dai paramenti più belli per dare maggior solennità alla cerimonia, usciva dalla sacrestia e si dirigeva verso l’altare, preceduto da due file di chierichetti, vestiti con le solite cotte bianche, impettiti ed orgogliosi di partecipare più da vicino alla funzione.

Ognuno di loro teneva in mano qualcosa che doveva servire al sacerdote nel suo esercizio, ed il più fortunato, reggeva con grande serietà lo strumento più importante: il turibolo fumante d’incenso.
Era, il rosario, un ripetersi ritmico di parole latine, a me incomprensibili, scandite ad intervalli di tempo uguali, tanto che le donne più anziane, stanche dopo la lunga giornata di lavoro, tendevano ad appisolarsi, declinando leggermente il capo con gli occhi socchiusi.

La cerimonia si svolgeva secondo regole precise, tanto che ciascuno sapeva sempre quale cosa dovesse dire o fare. Per me, era come se mi aspettassi, ad ogni intervallo, qualcosa di nuovo.

Ad un certo punto della funzione, non so dire quale, vi fu una pausa piena di incognite, ed infatti d’improvviso, come fulmine a ciel sereno, una donna di mezza età, un po’ sdentata, acconciata alla meglio e con l’alito che sapeva di polenta abbrustolita, frantumava l’aria intonando a squarcia gola l’ave Maria.

Subito, tutti i presenti senza eccezione, la seguivano, dando vita in tal modo, ad un coro di voci stonate ma che riuscivano alla fine, a trovare la loro sintonia nei toni più alti delle parole più semplici: ave....ave....ave Maria.
Sembrava allora che quel canto diventasse un grido accorato che saliva faticosamente verso la grande madre Divina affinché soccorresse queste anime stanche, un po’ smarrite, ma sicure nella fede.

L’incenso, come nebbia autunnale, avvolgeva tutto e tutti, conferendo a quel luogo il senso più alto della sacralità.
Pietro Agazzi

Pietro Agazzi nasce a Brescia il 14 febbraio 1939.
Attualmente vive a Brescia.
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